Esagerare con i Big Data Analytics: il caso Cambridge Analytica
Il caso Cambridge Analytica ha gettato una luce sinistra sull’uso eccessivo dei Big Data Analytics e sulle conseguenze per la nostra privacy.
Nel 2018 fece scalpore la notizia di Cambridge Analytica, società inglese di analisi di mercato che sviluppa progetti di marketing, accusata di aver spiato 50 milioni di persone tramite Facebook, e aver usato i dati raccolti per scopi elettorali. La società, infatti, ha collaborato alle campagne di Trump e della Brexit.
In questo articolo, analizziamo come l’esagerazione in questa pratica possa minare la sicurezza dei nostri dati personali e sollevare gravi preoccupazioni etiche.
Ecco l’opinione di un collega: Simone Rapagnà, web copywriter freelance.
Cosa è successo?
Facebook sostiene che Cambridge Analytica abbia agito in modo sleale, non avendo provveduto alla cancellazione dei dati raccolti tramite la sua piattaforma. Tuttavia, c’è anche chi rivela che reperire dati protetti dal social network e usarli per i propri scopi sia una prassi di molte aziende e Facebook faccia finta di non vedere.
Da Londra e Washington arrivano richieste di spiegazioni a Mark Zuckerberg. Da una parte e dall’altra dell’oceano si alzano le proteste di chi vuole che sia fatta chiarezza sui rischi di manipolazione sociale che il controllo di queste informazioni può avere. Insomma, grande problema per la società di Menlo Park, e un bivio forse cruciale per riflettere sul rapporto tra Big Data e privacy.
Sia in Europa che in USA le autorità di vigilanza della Privacy hanno promesso regolamentazioni più ferree per i colossi del web, con conseguenze pesanti per tutte quelle compagnie che da un decennio a questa parte dominano la digital economy, da Amazon a Google fino ad arrivare ad Apple.
Il GDPR, approvato nell’UE pochi mesi dopo lo scandalo, e la successiva normativa ePrivacy (conosciuta anche come Cookie Law) servono, infatti, a tutelare maggiormente l’utente per quanto concerne l’utilizzo dei dati.
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Le condizioni di utilizzo di Facebook
Facebook è una piattaforma privata sulla quale, prima di iniziare a utilizzarne i servizi, si deve stipulare un contratto, o meglio: accettare delle condizioni unilaterali di utilizzo. Nel momento in cui si accettano i termini e le condizioni, è come se si è firmato un contratto a tutti gli effetti.
Nel caso particolare di Facebook, al momento della creazione dell’account si accettano anche le Privacy Policy, cioè delle disposizioni riguardo le informazioni personali che andremo a immettere nel sito e il modo in cui saranno gestite.
Già qui sorge il primo problema: praticamente nessuno le legge o comunque non le legge tutte. Oltre al fatto che non sono di immediata comprensione infatti, c’è anche che sono lunghissime. Un’inchiesta del New York Times del 2010 ha evidenziato come la Privacy Policy di Facebook sia passata dalle 1004 parole nel 2005 alle quasi 6000 nel 2010. I più benevoli dicono per questioni di completezza, i più maliziosi per scoraggiarti a leggerle.
Gratis e sempre lo sarà, ovvero: quanto vale un account Facebook?
Appena arrivati sul sito di Facebook una scritta cattura l’attenzione: “è gratis e lo sarà sempre”. Ora, tutti sanno che questo colosso ha un giro d’affari di miliardi di euro e propone un contratto di prestazione di servizi gratis.
Come fa allora Facebook a guadagnare?
Due sono le particolarità del contratto che si stipula quando si inizia ad usare Facebook:
- L’utente usa il social gratis
- Sul social sono presenti spazi pubblicitari
Attraverso (ma non solo) la vendita di spazi pubblicitari si assicura una considerevole somma di profitti. Non siamo lontani dagli inserti pubblicitari su una rivista o su un quotidiano. La differenza sostanziale sta nel fatto che la pubblicità su Facebook è molto più incisiva. Grazie infatti alla mole di informazioni rilasciate dagli utenti sulla piattaforma il sistema è in grado di consentire agli inserzionisti di creare campagne pubblicitarie molto mirate. È dunque preoccupazione del social fornire un flusso continuo e sempre maggiore di utenti (e relativi dati) da poter far fruttare.
La questione dei dati sensibili e della privacy
Quando si inizia ad usare Facebook, la creazione del profilo avviene fornendo i propri dati personali. Ovviamente è possibile anche mentire e inserire dati non accurati. Tuttavia, un’interessante ricerca ha constatato che è molto alta la corrispondenza tra dati reali e dati forniti. Di questi dati personali obbligatori da fornire fanno parte la data di nascita e il nome, che non presentano altissime criticità a livello di privacy.
Alla luce del nuovo contesto digitale, il concetto di privacy può essere declinato nel diritto di esercitare e mantenere un controllo sulle proprie informazioni e sulla propria identità digitali.
Il problema si pone quando ad essere trattati sono i cosiddetti dati sensibili. Questi vengono enunciati nell’art. 4 del “Codice in materia di protezione dei dati personali”, che li definisce come:
“quei dati che possono rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, lo stato di salute e la vita sessuale”.
Sono dati che consentono di entrare in profondità nella sfera privata dell’individuo. Per questo, i dati sensibili possono essere trattati da un soggetto privato solo ed esclusivamente con il consenso scritto dell’interessato, osservando leggi molto rigide (almeno in Italia e in Europa). Non possono essere raccolti, trattati e studiati a insaputa dell’utente.
Come fa Facebook a prendere questi dati?
Sono gli stessi utenti attraverso le azioni quotidiane a fornire una mole di dati imponente.
Una delle caratteristiche del social network di Menlo Park sono i tasti di reazione. I classici “mi piace” e “condividi”, arricchiti negli ultimi tempi anche da emoticon. Mettere mi piace a determinati post o pagine può rivelare informazioni sensibili.
In tal modo, Facebook impara a conoscere il problema dell’utente e di conseguenza gli darà ciò di cui ha bisogno, in linea con la filosofia dell’Inbound Marketing che mira a intercettare l’utente mentre è in cerca di una soluzione.
Questo era solo un esempio in un certo senso innocuo, ma bisogna considerare che sui social si trova di tutto, anche ovviamente contenuti a tema politico.
La profilazione degli utenti e la personalizzazione di spot commerciali è alla base del guadagno; ma il fatto di usare le stesse tecniche di marketing analitico per influenzare le scelte politiche degli individui è qualcosa di molto grave.
I dati, nuova merce di scambio dei mercati digitali
La particolarità dei social, quindi, è che è lo stesso soggetto a costruirsi un profilo, arricchendosi via via di informazioni preziose.
Ogni reazione, condivisione e attività consente di captare sfumature, interessi e passioni altrimenti molto difficili da registrare (e alle volte illegali da registrare). Proprio la semplicità di un clic e l’innocenza di un “mi piace” non consentono di individuare la reale implicazione del gesto.
Antonello Soro, presidente del Garante della Privacy (l’organismo preposto alla Vigilanza dei Diritti di Privacy), affermava in un’intervista di qualche anno fa che:
«Dobbiamo essere consapevoli che gli operatori della rete privilegiano la loro funzione di imprenditori privati che hanno interesse all’utile dell’impresa. Nel trattamento dei dati personali, che vengono raccolti, l’obiettivo principale è quello di accentuare la capacità di “profilazione” e più dati noi consegniamo alla rete più gli operatori sono capaci di accumulare ricchezza. In questa logica il rovescio della medaglia sono i cittadini che usano uno spazio di comunicazione straordinariamente importante, una finestra senza eguali per accedere alla conoscenza, ma non hanno la capacità di essere informati: un po’ per propria responsabilità, un po’ per quella degli operatori, che non hanno alcun interesse a dare un’informativa realmente compiuta. In questo sbilancio di mezzi, il cittadino è la parte debole di fronte agli imprenditori che offrono servizi di internet provider».
Il caso Cambridge Analytica ha sollevato gravi preoccupazioni sulla protezione dei dati personali e sulla possibile manipolazione delle informazioni a fini politici.
La risposta a questa violazione della privacy deve andare oltre le immediate reazioni, spingendoci a riconsiderare le politiche di protezione dei dati, la regolamentazione delle aziende tech e la necessità di educare il pubblico sulla sicurezza online. Solo attraverso un impegno congiunto possiamo sperare di preservare la democrazia digitale e proteggere la privacy di tutti gli utenti online.
Simone Rapagnà è un Web Copywriter Freelance. Laureato in giurisprudenza, a seguito di un master in Marketing e Comunicazione d’Impresa, coniuga la passione per la scrittura con il web marketing. È docente di Web Copywriting presso la piattaforma di e-learning Unipro Academy.
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