Il caso Cambridge Analytica ha mostrato l’esasperazione nell’uso dei Big Data. Tremano Facebook, Zuckerberg e gli altri colossi del web.
Di pochi giorni fa la notizia che Cambridge Analytica, società inglese di analisi di mercato che sviluppa progetti di marketing, è accusata di aver spiato 50 milioni di persone tramite Facebook, e aver usato i dati raccolti per scopi elettorali. La società, infatti, ha collaborato alle campagne di Trump e della Brexit.
Ecco l’opinione di un collega: Simone Rapagnà, Web Copywriter Freelance.
Leggi anche l’opinione di Sara Pedron, Digital Marketing Strategist di SocialCities.
Facebook sostiene che Cambridge Analytica abbia agito in modo sleale, non avendo provveduto alla cancellazione dei dati raccolti tramite la sua piattaforma. Tuttavia, c’è anche chi rivela che reperire dati protetti dal social network e usarli per i propri scopi sia una prassi di molte aziende e Facebook faccia finta di non vedere.
Da Londra e Washington arrivano richieste di spiegazioni a Mark Zuckerberg. Da una parte e dall’altra dell’oceano si alzano le proteste di chi vuole che sia fatta chiarezza sui rischi di manipolazione sociale che il controllo di queste informazioni può avere. Insomma, una bella gatta da pelare per la società di Menlo Park, e un bivio forse cruciale per riflettere sul rapporto tra Big Data e Privacy.
Sia in Europa che in USA le autorità di vigilanza della Privacy hanno promesso un duro giro di vite e regolamentazioni più ferree per i colossi del web, con conseguenze pesanti per tutte quelle compagnie che da un decennio a questa parte dominano la digital economy, da Amazon a Google fino ad arrivare ad Apple. Il GDPR, approvato nell’UE pochi mesi dopo lo scandalo, e la prossima normativa ePrivacy (conosciuta anche come Cookie Law) provvedono, infatti, a tutelare maggiormente l’utente, lato debole della contrattazione sull’utilizzo dei dati.
In SocialCities, anche grazie alla partnership con Iubenda, siamo esperti sugli aspetti legali e normativi che riguardano siti internet e portali di e-commerce: contattaci per un progetto… a norma di legge!
Facciamo qualche considerazione.
Facebook è una piattaforma privata sulla quale, prima di iniziare a utilizzarne i servizi, bisogna stipulare un contratto, o meglio: accettare delle condizioni unilaterali di utilizzo. Nel momento in cui si accettano i termini e le condizioni posti, è come se si è firmato un contratto a tutti gli effetti.
In linea teorica è lo stesso procedimento di quando si prende l’autobus e si timbra il biglietto: obliterando il biglietto si stipula un contratto tra il passeggero e la compagnia che offre la corsa.
Nel caso particolare di Facebook, al momento della creazione dell’account si accettano anche le famose Privacy Policy, cioè delle disposizioni riguardo le informazioni personali che andremo a immettere nel sito e il modo in cui saranno gestite. E già qui sorge il primo problema: praticamente nessuno le legge, e anche se dotato di buona pazienza, di certo non le legge tutte.
Oltre al fatto che non sono di immediata comprensione infatti, c’è anche che sono lunghissime. Un’inchiesta del New York Times del 2010 ha evidenziato come la Privacy Policy di Facebook sia passata dalle 1004 parole nel 2005 alle quasi 6000 nel 2010. I più benevoli dicono per questioni di completezza, i più maliziosi per scoraggiarti a leggerle.
Appena arrivati sul sito di Facebook una scritta cattura l’attenzione: “è gratis e lo sarà sempre”. Ora, tutti sanno che questo colosso ha un giro d’affari di miliardi di euro. E propone un contratto di prestazione di servizi gratis. È come se la società di trasporto di sopra non facesse pagare il biglietto dell’autobus. Come fa allora Facebook a guadagnare se non fa pagare il “biglietto”?
Due sono le particolarità del contratto che si stipula quando si inizia ad usare Facebook:
Ecco come fa: attraverso (ma non solo) la vendita di spazi pubblicitari si assicura una considerevole somma di profitti. Non siamo lontani dagli inserti pubblicitari su una rivista o su un quotidiano. La differenza sostanziale sta nel fatto che la pubblicità su Facebook è molto più incisiva. Chi lavora con Facebook ADS ne sa qualcosa.
Grazie infatti alla mole di informazioni rilasciate dagli utenti sulla piattaforma il sistema è in grado di consentire agli inserzionisti di creare campagne pubblicitarie molto mirate. È dunque preoccupazione del social fornire un flusso continuo e sempre maggiore di utenti (e relativi dati) da poter far fruttare.
Il famoso adagio che recita “quando qualcosa è gratis vuol dire che il prodotto sei tu” calza a pennello.
Quando si inizia ad usare Facebook, la creazione del profilo avviene fornendo i propri dati personali. Ovviamente è possibile anche mentire e inserire dati non accurati. Tuttavia, un’interessante ricerca ha constatato che è molto alta la corrispondenza tra dati reali e dati forniti. Di questi dati personali obbligatori da fornire fanno parte la data di nascita e il nome, che non presentano altissime criticità a livello di Privacy.
Alla luce del nuovo contesto digitale, il concetto di Privacy può essere declinato nel diritto di esercitare e mantenere un controllo sulle proprie informazioni e sulla propria identità digitali.
Il problema si pone quando ad essere trattati sono i cosiddetti dati sensibili. Questi vengono enunciati nell’art. 4 del Codice in materia di protezione dei dati personali”, che li definisce come:
“quei dati che possono rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, lo stato di salute e la vita sessuale”.
Sono dati che consentono di entrare in profondità nella sfera privata dell’individuo. Per questo, i dati sensibili possono essere trattati da un soggetto privato solo ed esclusivamente con il consenso scritto dell’interessato, osservando leggi molto rigide (almeno in Italia e in Europa). Non possono essere raccolti, trattati e studiati a insaputa dell’utente.
La risposta è semplice: non lo fa. Sono gli stessi utenti attraverso le azioni quotidiane a fornire una mole di dati imponente.
Una delle caratteristiche del social network di Menlo Park sono i tasti di reazione. I classici “mi piace” e “condividi”, arricchiti negli ultimi tempi anche da emoticon. Cose banali vero?
Sbagliato!
Mettere mi piace a determinati post o pagine può rivelare informazioni sensibili. Ad esempio una pagina Rimedi naturali contro l’insonnia può rivelare non solo un determinato stato di salute (stress, insonnia etc), ma leggendo tra le righe anche un certo approccio religioso-filosofico dell’individuo tramite rimedi naturali. Di conseguenza, c’è una certa probabilità che lo stesso soggetto sia interessato a pubblicità inerenti rimedi di disturbi del sonno, prodotti naturali etc.
Il mantra di una attività del genere è: conosco il tuo problema e ti darò ciò di cui hai bisogno, in linea con la filosofia dell’Inbound Marketing che mira a intercettare l’utente mentre è in cerca di una soluzione.
Questo era solo un esempio in un certo senso innocuo, ma bisogna considerare che sui social si trova di tutto, anche ovviamente contenuti a tema politico. Si pensi ad esempio alle campagne elettorali italiane, che vedono una preponderante presenza sui social network dei vari candidati e dei rispettivi schieramenti politici. E qui ci riagganciamo a dove eravamo partiti: lo scandalo DataGate e la società di marketing politico Cambridge Analytica.
La profilazione degli utenti e la personalizzazione di spot commerciali può anche andare bene; ma il fatto di usare le stesse tecniche di marketing analitico per influenzare le scelte politiche degli individui è qualcosa di molto grave, e che pare stia per aprire un vaso di Pandora davvero profondo.
La particolarità dei social quindi è che è lo stesso soggetto a costruirsi un profilo, arricchendolo via via di informazioni preziose. Ogni reazione, condivisione e attività consente di carpire sfumature, interessi e passioni altrimenti molto difficili da registrare (e alle volte illegali da registrare). Proprio la semplicità di un clic, e l’innocenza di un “mi piace” o di un “cuoricino”, non consentono di individuare la reale implicazione del gesto.
Antonello Soro, presidente del Garante della Privacy (cioè l’organismo preposto alla vigilanza dei diritti di Privacy), affermava in un’intervista di qualche anno fa che:
«Dobbiamo essere consapevoli che gli operatori della rete privilegiano la loro funzione di imprenditori privati che hanno interesse all’utile dell’impresa. Nel trattamento dei dati personali, che vengono raccolti, l’obiettivo principale è quello di accentuare la capacità di “profilazione” e più dati noi consegniamo alla rete più gli operatori sono capaci di accumulare ricchezza. In questa logica il rovescio della medaglia sono i cittadini che usano uno spazio di comunicazione straordinariamente importante, una finestra senza eguali per accedere alla conoscenza, ma non hanno la capacità di essere informati: un po’ per propria responsabilità, un po’ per quella degli operatori, che non hanno alcun interesse a dare un’informativa realmente compiuta. In questo sbilancio di mezzi, il cittadino è la parte debole di fronte agli imprenditori che offrono servizi di internet provider».
Il macigno ha già iniziato a rotolare. Ora bisogna vedere se si tramuterà in valanga.
Simone è un Web Copywriter Freelance. Laureato in giurisprudenza, a seguito di un master in Marketing e Comunicazione d’Impresa, coniuga la passione per la scrittura con il web marketing. È docente di Web Copywriting presso la piattaforma di e-learning Unipro Academy.
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